Uno studio preclinico, utilizzando un modello animale di malattia di Parkinson, ha dimostrato che con una singola esposizione della durata di pochi minuti di stimolazione magnetica transcranica (TMS) è possibile migliorare i sintomi motori e contrastare le alterazioni dei neuroni striatali che mostrano una riduzione delle loro connessioni, tipica della fase sintomatica iniziale della malattia.
Lo studio, coordinato dalla professoressa Veronica Ghiglieri dell’Università Telematica San Raffaele Roma, ha utilizzato tecniche di elettrofisiologia e immunoistochimica e per la prima volta ha osservato una risposta di tipo strutturale alla stimolazione con TMS, tecnica non invasiva già clinicamente sperimentata per diverse patologie, per la quale erano stati riportati finora solo effetti nella funzione.
La ricerca, finanziata da un grant del “Fresco Parkinson Institute to New York University School of Medicine and The Marlene and Paolo Fresco Institute for Parkinson's and Movement Disorders” e da un grant del Ministero della Salute, ha individuato un meccanismo responsabile degli effetti positivi della stimolazione: si tratta del contributo funzionale di una specifica subunità del recettore NMDA, che conferisce ai neuroni parzialmente danneggiati una nuova capacità di rispondere agli stimoli. Questa tipologia specifica di subunità si trova prevalentemente nelle prime fasi dello sviluppo, in neuroni giovani, ricchi di connessioni immature ma dall’elevata capacità plastica. Il gruppo ha evidenziato che, sebbene i soggetti trattati fossero in età adulta, in seguito al trattamento con TMS, si poteva osservare un aumento significativo di nuove connessioni tipiche della fase giovanile.
Il lavoro intitolato “Transcranial Magnetic Stimulation Exerts “Rejuvenation” Effects on Corticostriatal Synapses after Partial Dopamine Depletion” è stato pubblicato della prestigiosa rivista Movement Disorders; ha visto la partecipazione di diversi istituti di ricerca: CNR, IRCCS Fondazione Santa Lucia, IRCCS San Raffaele Roma, Università di Perugia, Università di Milano e Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli.
Sebbene si tratti di uno studio preclinico, ancora lontano da implicazioni per il paziente, si può intravedere un importante potenziale applicativo. “La novità del nostro studio – sottolinea la professoressa Ghiglieri – risiede nell’aver scoperto un meccanismo mai osservato prima attraverso il quale la TMS esercita le sue azioni sulle cellule striatali che potrebbe essere sfruttato per disegnare studi clinici e ottimizzare le terapie farmacologiche attualmente in uso”. “Questi risultati – prosegue la prof.ssa Ghiglieri - sarebbero anche in accordo con un recente studio clinico che ha identificato una variazione nella densità nella sostanza grigia cerebrale in risposta alla TMS, indicando che i tempi sono maturi per prendere in considerazione gli studi di morfologia condotti sul modello animale in un’ottica traslazionale”. La malattia di Parkinson è un disturbo neurologico causato da una degenerazione lenta e progressiva “dei neuroni dopaminergici della via nigrostriatale, che altera le funzioni motorie, vegetative e cognitive, con conseguenze sulla qualità della vita dei pazienti. La riduzione dei livelli di dopamina nel nucleo striato, un’area sottocorticale importante per la regolazione del movimento volontario, causa alterazioni sinaptiche precoci. Tuttavia, la diagnosi di malattia, che spesso avviene all’esordio dei sintomi motori, giunge quando il livello di neurodegenerazione delle cellule dopaminergiche si trova già oltre il 60%. Questo accade per la grande capacità di alcuni circuiti neuronali del sistema motorio di compensare le disfunzioni di una piccola popolazione neuronale, adattando l’attività nervosa alla nuova condizione di squilibrio. Le terapie d’elezione, volte a ripristinare i livelli di dopamina, sono in grado – spiega ancora la docente dell’Università Telematica San Raffaele Roma - di contrastare efficacemente i sintomi motori ma non di arrestare la degenerazione neuronale e nel tempo possono generare a loro volta una risposta di adattamento alla terapia con effetti invalidanti. In queste fasi è importante riconoscere la capacità residua delle cellule nervose dello striato di rispondere efficacemente a determinati stimoli, naturali o indotti, per proporre approcci integrati che consentano una efficacia terapeutica sostenibile nel tempo”.